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Usi e Costumi

Dolci siciliani tipici della Festa dei Morti (Parte I)

Nicoletta Natoli

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La domanda potrebbe nascere spontanea: come può essere definita Festa una giornata dedicata al ricordo dei nostri cari defunti?

Fatto sta che per noi siciliani il 2 novembre si celebra la “Festa dei Morti”, una ricorrenza molto sentita che risale al X secolo e durante la quale è previsto un mix di celebrazioni tra il sacro e il profano. Si narra che nella notte tra il 1º e il 2 novembre i defunti facciano visita ai propri cari ancora in vita per lasciare dei regali destinati ai bambini. La tradizione vuole che siano, ovviamente, i genitori a comprare questi doni nelle fiere che si tengono in questo periodo in svariate zone della Sicilia, per poi nasconderli in casa e farli trovare ai più piccoli il 2 novembre al mattino presto con una specie di caccia al tesoro. Questo piccolo rituale è un modo per mantenere saldo il legame con le persone che non ci sono più, e anche per esorcizzare nei bambini la paura della morte, dato che a questi ultimi viene fatto credere che siano stati i morti a portare loro i regali, trasformando appunto il tutto in una piccola “festa”.

Come in ogni festa che si rispetti, in particolare nella nostra Sicilia, oltre ai doni non manca mai un vassoio di dolci o di frutta secca, a dimostrazione del fatto che a questa ricorrenza annuale è legato il consumo di tutta una serie di dolci tradizionali, alcuni dei quali sono diventati un vero e proprio marchio di fabbrica dell’isola. Tra la vasta gamma a nostra disposizione abbiamo scelto di parlare di cinque dolcezze siciliane tipiche del periodo dei Morti.

La Frutta Martorana

Il nostro zuccheroso racconto inizia dalla Frutta Martorana, dolce palermitano diffuso ormai in tutto il mondo che ha ottenuto il riconoscimento di Prodotto Agroalimentare Tradizionale. Ha una storia molto antica ed è famoso perché il suo confezionamento prevede la riproduzione artistica esatta di frutta, ortaggi, pesci e, ai giorni nostri, degli oggetti più disparati. Deve il suo nome alla chiesa palermitana di Santa Maria dell’Ammiraglio o della Martorana, costruita nel 1143 e ubicata nelle immediate vicinanze di un monastero benedettino fondato più tardi nel 1194 dalla nobildonna Eloisa Martorana, di cui ha ereditato l’appellativo. Tale monastero divenne conosciuto per i suoi frutti di pasta di mandorle, e per volere dell’aristocratica vi si iniziarono a realizzare squisiti frutti di pasta reale, considerati delle autentiche opere d’arte che provavano a imitare la frutta vera.

Di per sé il giardino del monastero era già ricco di alberi di arance, ma in occasione di una particolare visita la sua frutta “finta” salì alla ribalta, aprendo la strada al successo della frutta Martorana. Era il mese di giugno del 1537 quando Carlo V, l’imperatore spagnolo sul cui impero non tramontava mai il sole, venne ad ammirare la bellezza del convento. Poiché giugno non è un periodo particolarmente florido per gli agrumi, gli alberi erano scarni, e così per dare l’idea di avere un giardino molto curato, le suore si inventarono uno stratagemma: con la pasta di mandorle realizzarono delle arance con cui adornare i rami, e riuscirono a dare alle loro creazioni le stesse straordinarie sfumature di colore presenti in natura. Il sovrano cadde nel tranello e rimase stupito dalla quantità di frutta che vide, ma successivamente, una volta venuto a conoscenza dell’imbroglio, volle assaggiare quei dolci coloratissimi, che gli piacquero molto e di cui ordinò cospicui quantitativi.

La nobile Martorana è anche la protagonista dell’aneddoto che lega la frutta alla ricorrenza del 2 novembre. Il monastero delle monache benedettine ospitava moltissimi piccoli orfani, e un giorno Donna Eloisa si inventò un modo per tenerli buoni e farli divertire. Invece che alle sorelle, assegnò ai trovatelli il compito di dare alla pasta di mandorle la forma dei frutti colorati, e il frutto più bello e colorato avrebbe vinto un premio. Dopo la sua morte, le suore stabilirono di tramandare questa tradizione, e ogni mattina del 2 novembre mettevano ai piedi dei lettini dei bimbi alcuni squisiti dolcetti a forma di frutto. Quando questi si svegliavano, raccontavano loro che durante la notte era tornata Donna Eloisa, “la Martorana”, che voleva rendere felici i bambini buoni con i suoi dolci regali.

(1 – continua)

Nicoletta Natoli

Mi chiamo Nicoletta Natoli e sono nata a Palermo il 22 gennaio del 1982. Ho sempre sognato di lavorare nel campo delle lingue straniere, e ho avuto la fortuna di riuscirci diventando una traduttrice, anche grazie ai miei genitori che mi hanno sempre sostenuta in tutte le mie scelte. Le mie più grandi passioni sono la musica, il calcio, i viaggi, la lettura, le serie TV e tutto ciò che riguarda la Spagna. Poco tempo fa la frequentazione di un corso di scrittura ha fatto nascere dentro di me la voglia di raccontarmi e di raccontare agli altri, e sono molto grata di avere l’opportunità di poterlo fare.

Curiosità

Dolci natalizi in Sicilia: alla scoperta dei nucàtoli

Nicoletta Natoli

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Preparati tradizionalmente in occasione del Natale, i nucàtoli sono biscotti ripieni siciliani, diffusi in tutta l’isola con diverse varianti della ricetta originale. Vista la loro importanza nel patrimonio gastronomico isolano, sono stati inseriti nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani, redatta dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali.

Il nome nucàtolo viene fatto derivare dalla parola latina nucatus, che significa “condito con le noci”, oppure dalla parola araba naqal, che significa “frutta secca”. Di fatto l’utilizzo della frutta secca è un elemento comune in tutte le versioni del dolce, in cui si trovano sempre le mandorle, le noci, i fichi secchi e una miscela di diverse spezie.

Si racconta che a Palermo furono le suore di clausura del Monastero di Santa Elisabetta, già note in città per la loro abilità nella rosticceria, a preparare per prime dei nucàtoli deliziosi. Crearono dei cuscinetti di pasta frolla glassata, li farcirono con la frutta secca e poi li modellarono con la forma della lettera S o di un sigaro. I dolci che nascevano dalle mani delle monache erano sempre garanzia di qualità, ed erano i prediletti dai palermitani di ogni ceto sociale.

Seppure in origine fu elaborata in un monastero, la ricetta si diffuse poi da un comune all’altro della Sicilia, subendo qualche modifica sulla base degli ingredienti preferiti dai pasticceri di turno ma anche della disponibilità delle materie prime presenti nei vari territori. Ogni città vanta la paternità di questo squisito dolce siciliano, ma a prescindere dalle rivendicazioni geografico-culinarie esso si può indubbiamente considerare uno dei vanti della tradizione dolciaria isolana nella sua totalità.

Nicoletta Natoli

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Usi e Costumi

Il falò della Vigilia… Sapori e odori intorno al mio quartiere deglii Archi a Ragusa Ibla

Redazione

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A Vampanignà ra Vigilia ro Santu Natali sapuri e Sciauri a tuornu o ma quartiri ri l’Archi Iusu Quando ero un ragazzino dopo la festa di San Martino nel mio quartiere degli Archi si entrava già nell’atmosfera magica di Natale. La “Vampanignà” della vigilia era l’obiettivo di ogni rione della mia città e i ragazzini come me si costituivano in una sorta di comitato anche se erano i più grandi che solitamente assumevano il comando e tracciavano le strategie. Ogni quartiere mirava a realizzare il falò più spettacolare e fino al 24 dicembre quasi nulla trapelava. Si osservavano i movimenti di altri gruppi di ragazzi, se ne intuivano le mosse preventivamente… ma tutto era segreto. La legna si recuperava con la questua casa per casa: “signora na runa un po ri ligna pi fari a vamapanignà ?” (signora ci può dare un po' di legna per fare il falò ?) ma la legna destinata al grande fuoco si rubacchiava anche dai campi. Si stoccavano enormi quantità di ramaglie di rimonda degli ulivi, di fascine di tralci della vite, legati tra di loro da altri tralci o con il filo di ferro. I Fraschi (ramoscelli secchi) erano facilmente infiammabili ma ardevano per poco. La vera caccia si dava ai pezzi grossi: “i cippi”. Erano tronchi d’ulivo o d’altre piante per dare struttura e resistenza al grande fuoco. Erano questi che facevano la differenza! Per strada era sovente incontrare ragazzini che con robuste funi tiravano grossi tronchi per stoccarli insieme all’altra legna. Il giorno della vigilia intervenivano anche gli adulti e la “festa” cominciava a prendere corpo ed ogni ragazzino diventava protagonista dell’evento. A Vampanignà prendeva forma già dal mattino…i tronchi al centro e le fascine di fraschi sovrapposte l’una all’altra fino a raggiungere pericolose vette alte anche più di dieci metri. Quando tutta la legna finiva per essere sistemata, la Vampanignà veniva guardata a vista fino al fatidico momento in cui si appiccicava il fuoco. Intanto nelle famiglie l’atmosfera si caricava di ora in ora dell’ansia dell’attesa. La mia cucina era un laboratorio…il camino acceso d’un fuoco scoppiettante. Farina, impasti, olio bollette nel quale venivano immerse le “cialde” da friggere che si mangiavano ripiene per l’occasione di ricotta fresca zuccherata e magicamente degne di essere chiamate cannoli… Picciriduzi, allicativi l’ugna, cannoli, a tinchi te… (ragazzini, leccatevi i polpastrelli, cannoli, in quantità…) tutto era straordinariamente colorato e i profumi valicavano l’uscio delle case per mescolarsi con l’odore

del muschio che cresceva sui sassi e sulle pareti di tufo, con l’odore dell’olio dei frantoi e con quello dell’inverno umido del territorio Ibleo. In verità io non ho mai apprezzato più di tanto i dolci…mi piaceva il rito della preparazione. Amavo respirare profondamente l’odore delle spezie usate, muovermi per la cucina sottosopra, osservare la giovane figura di mia madre travagliata e le donne del quartiere degli Archi ad Ibla indaffarate alle quali mancava sempre qualcosa: “un limone, la cannella, due uova” …così il “laboratorio” s’ingrandiva e anche gli ingredienti per i dolci finivano per essere condivisi in una sorta di celebrazione comune dell’evento. Mi piaceva vedere il via vai delle donne dal forno, l’odore della legna d’ulivo che scoppiettava nel camino e mio padre che selezionava la legna e la stoccava con sapiente maestria…poi armava il fuoco per rendere la fiamma performante ai bisogni del momento. Quando le ceste si riempivano dei dolci di Natale cominciava l’altra fase del magico rito; mia madre preparava le porzioni, un po’ di tutto, da distribuire a tutti: questi alla nonna, questi alla zia, questi a…tanta altra gente individuata solo col criterio della solidarietà diffusa. Non c’era persona che potesse dire di non essere stata pensata. A casa mia si faceva il presepio che, giorno dopo giorno, si arricchiva sempre con l’entrata in scena di qualche personaggio. Non si compravano palle o luci colorate al supermercato. Il mio presepio aveva proprio tutto…le “montagne” le costruiva mia madre con le piante secche della vite (cippuni) e le modellava con sacchi di iuta. Il verde era il muschio che cresceva in abbondanza, i personaggi poi li realizzava con la pasta di pane e i vestiti con qualsiasi straccio colorato… in seguito quei pastorelli si persero e furono rimpiazzati da altri più belli e colorati comprati nel nuovo negozio dove vendevano tante cose moderne e meravigliose (per i miei occhi da bambino…) La Standa. Non esisteva un solo personaggio del presepio uguale all’altro…ognuno aveva la dignità di essere originale. C’era il pastore, il contadino, la raccoglitrice di olive, le pecore, cani, galline…tutti pazientemente realizzati, vestiti e colorati da mia madre. Mancava forse solo il soffio per dargli la vita. Alle otto della sera si accendeva la Vampanignà e l’effetto era strabiliante…fiamme tanto alte che lambivano le case e spesso anche i cavi della corrente elettrica. Poi arrivavano i commenti sui falò realizzati dagli altri quartieri e i paragoni si sprecavano: “quello della stazione è il più grande…noo è quello del quartiere dell’Angelo”. I fuochi resistevano tanto più quanto maggiore era la quantità del legno “nobile” che gli dava vigore e, a tarda sera, la gente si radunava intorno per raccontarsi e per farsi ascoltare. Era il momento in cui si buttavano i carciofi da cuocere nella brace… piccoli piaceri ma grandi emozioni per tutti noi picciriddi (ragazzini). Prevaleva allora l’odore della resina…e ancora calde i carciofi, a fatica, si aprivano con le mani per estrarre le foglie profumati e ripieni di mollica di pane, prezzemolo pepe nero etc. Prima che la compagnia si congedasse, ognuno recuperava un po’ della pubblica brace con dei paletti di legno per scaldare la casa e con i “succetti” (scaldini) di rame per dare un po’ di tepore al letto prima di coricarsi. Se potessi rappresentare con le parole ciò che ancora risiede nei miei ricordi! Se sapessi far rivivere gli attimi di un passato vissuti nell’inconsapevolezza di ciò che poi sarebbe diventato il mondo ai nostri giorni dove è preconfezionato anche lo scambio degli auguri…

Rincorro i miei ricordi nell’odore di cannella e dei mandarini … cerco di afferrarli e di tenerli stretti nella mente…tento di confonderli con il mio presente e di mescolarli insieme. A volte ci riesco anche… ma più frequentemente, la soluzione che produco dal mescolamento, che mi diletto a fare con il mio cervello, risulta instabile. Come olio e acqua…dopo un po’ gli elementi si separano inesorabilmente. Se potessi muovermi nel tempo lo farei verso il passato…direi alla mia gente seduta intorno alla Vampanignà : questo nostro futuro è un bluff…direi che possedere il superfluo non rende più felici, che gli uomini peggiorano con la ricchezza e che la ricchezza degli uni determina sempre la povertà di altri. Direi che nel futuro auspicato c’è in agguato un mostro che globalizza i sogni e li mercifica. Direi alla mia gente intorno al fuoco di non perdersi nella ricerca dell’effimero…c’è più umanità in una zuppa di fagioli condivisa che in tanta nauseante corsa verso l’opulenza, anche così incivilmente ostentata da questa moderna insopportabile sottocultura… ma poi vedo ritornare la mia amata figlia La Giulia che aspetta con entusiasmo il Natale e le feste e capisco che ogni generazione ha il suo amato Natale.

Salvatore Battaglia Presidente Accademia delle Prefi

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Curiosità

La storia di Santa Lucia tra il sacro e il culinario

Nicoletta Natoli

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Conosciuta come Santa Lucia, Lucia di Siracusa nacque nella città siciliana nel 283. Durante la grande persecuzione ordita dall’imperatore Diocleziano fu una martire cristiana, e oggi è venerata come santa dalla Chiesa cattolica e da quella ortodossa, che la celebrano il 13 dicembre.

Per via dell’etimologia del suo nome, che discende dalla parola latina Lux – luce -, tradizionalmente Santa Lucia è invocata come protettrice degli occhi, della vista e di tutti coloro che soffrono di problemi a essa legati, ma è anche la patrona degli oculisti, degli elettricisti e degli scalpellini. Le sue spoglie mortali riposano nel santuario veneziano che porta il suo nome, mentre il suo luogo di culto principale è la Chiesa di Santa Lucia al Sepolcro, situata nella sua città natale.

Nel corso dei secoli, il personaggio di Santa Lucia è stato fonte di ispirazione in ambito religioso e teologico, ma anche artistico e letterario. In quest’ultimo campo spicca la citazione della martire siracusana nel Convivio di Dante, dove il sommo afferma di aver sofferto a causa delle sue prolungate letture di un’alterazione agli occhi, guarita proprio per intercessione della santa. La gratitudine nei confronti di quest’ultima lo spinse a menzionarla anche nella Divina Commedia, dove le attribuì allegoricamente un ruolo fondamentale nella vicenda dell’umanità intera.

 

I luoghi del culto

L’importanza di Santa Lucia è evidenziata pure dal numero di luoghi in cui viene celebrato il suo culto. Per quanto riguarda l’Italia, oltre che in Sicilia la santa è venerata in Calabria, in Campania, in Abruzzo, in Toscana, in Trentino, in Friuli, in Lombardia, in Piemonte, in Emilia e in parte del Veneto. In quest’ultima regione spicca la tradizione veronese legata ai “doni di Santa Lucia”, poiché essa viene considerata alla stregua di San Nicola, Babbo Natale e Gesù Bambino, della Befana e di altre figure che nei secoli hanno rimpiazzato l’antico culto degli avi nell’immaginario dei bambini. Ma l’amore per Santa Lucia varca i confini italiani, tanto è vero che è molto venerata anche in Svezia, sia dalla Chiesa cattolica che da quella luterana. Qui è diffuso il canto tradizionale Luciasången, che non è altro che la versione svedese della famosa canzone napoletana “Santa Lucia”, e ogni anno è eletta una Lucia di Svezia, che andrà a Siracusa per partecipare alla processione dell’ottava, durante la quale il simulacro della Santa viene riportato in Duomo. Tra gli svariati Paesi del mondo che celebrano il culto della martire siracusana figurano l’Argentina, la Croazia, la Finlandia, la Spagna e la Norvegia.

In Sicilia, il legame tra storia, religione e cucina

Come succede con numerosi culti isolani, anche nel caso di Santa Lucia si crea un legame tra storia, religione e cucina. Nello specifico, per capire meglio le origini delle usanze gastronomiche del 13 dicembre (in particolare a Palermo e Siracusa), bisogna risalire al 1646 o al 1763, anni di grande carestia in Sicilia.

Per colpa della scarsità delle piogge, le spighe non maturarono come dovevano e quindi la raccolta non poté soddisfare le necessità della popolazione, che fu costretta a comprare il grano altrove e a un prezzo elevato. Allora, ai cittadini non restò che affidarsi alla fede, e proprio nel giorno consacrato a Santa Lucia del 1646 nel porto di Palermo arrivò un bastimento carico di grano. Stretti nella morsa della fame, i cittadini per sfamarsi più rapidamente bollirono il grano, aggiungendo esclusivamente un po’ d’olio, e crearono così la pietanza che è giunta fino ai giorni nostri con il nome di “cuccìa” (dal greco koukkía – chicchi di grano) nella sua variante dolce e salata.

Da quel momento in poi, la devozione alla santa passò pure “dal sacro al culinario”, poiché i siciliani decisero che per commemorare questo miracolo nel giorno consacrato a Lucia di Siracusa non avrebbero più mangiato alimenti prodotti con farina di cereali o altre farine. E fu così che il 13 dicembre in Sicilia, in particolare a Palermo, è diventato il giorno “consacrato” all’arancin – mettete voi la vocale che preferite -, il cui consumo, insieme a quello della cuccìa, si è praticamente trasformato in una sorta di rito pagano.

Nicoletta Natoli

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